DENTRO LA MOSTRA

I temi di “The Tree of Tales”

Le finestre su un mondo svanito

Gli Hobbit sedevano immobili e silenziosi, estasiati; e parve che la magia delle sue parole avesse placato il vento, asciugato le nuvole e allontanato la luce del giorno per far posto all’oscurità giunta dall’Ovest e dall’Est: il cielo era inondato dal bagliore di bianche stelle. Frodo non riusciva a capire se mattina e sera si fossero alternate per uno o più giorni. Non si sentiva né stanco né affamato: soltanto colmo di meraviglia.

(Il Signore degli Anelli, Nella casa di Tom Bombadil).

Durante la prima tappa della loro avventura, gli Hobbit incontrano un personaggio misterioso ma importante. Tom Bombadil è una specie di angelo in incognito, uno spirito divino che ha scelto di vivere in un angolo di mondo il cui il tempo si è fermato. L’incontro con Tom è dunque per gli Hobbit come un ritorno temporaneo ad un eden perduto, e un recupero, grazie alla ‘magia delle sue parole’, di un atteggiamento dominato dalla meraviglia. La stessa esperienza che Frodo farà a Lórien, dimora della regina Galadriel, e che faranno poi Merry e Pipino nella foresta di Fangorn, anch’essi luoghi ancestrali, ‘finestre su un mondo svanito’.

La meraviglia

Mentre gli altri si sdraiavano sull’erba fragrante, Frodo rimase in piedi perso in ammirazione. Gli sembrava di essere volato giù da un’alta finestra aperta su un mondo svanito. La luce in cui era immerso non aveva nome nella sua lingua. Tutto ciò che vedeva era armonioso, ma i contorni parevano al tempo stesso precisi, come se concepiti e disegnati al momento in cui gli venivano scoperti gli occhi, ed antichi, come se fossero esistiti da sempre. Non vedeva colori ignoti al suo sguardo, ma qui l’oro ed il bianco, il blu ed il verde erano freschi ed acuti, e gli pareva di percepirli per la prima volta e di creare per essi nomi nuovi e meravigliosi.

(Il Signore degli Anelli, Lothlórien)

Condusse il suo compagno sotto gli immensi rami degli alberi. Parevano inconcepibilmente vecchi. Da essi pendevano lunghe barbe strascicanti di licheni, che dondolavano al soffio della brezza. Gli Hobbit sbirciarono giù per il pendio dalle tenebre in cui erano immersi: piccole figure furtive che nella fioca luce sembravano elfici bambini di tempi immemorabili intenti a osservare dal Bosco Selvaggio, pieni di stupore, la loro prima Alba.

(Il Signore degli anelli, Uruk-hai)

La meraviglia di fronte al creato, che è strettamente connessa alla creazione del linguaggio e della poesia (‘nomi nuovi e meravigliosi’), è dunque la posizione originale della creatura, ed è infatti quella che caratterizza gli elfi, i primogeniti di Dio, nei primi giorni della loro storia:

A lungo i Primogeniti dimorarono nella loro prima casa accanto all’acqua sotto le stelle, e percorsero la Terra pieni di ammirazione; e presero a formare discorsi e a dar nome a tutte le cose che scorgevano. (…) Lunga e lenta fu la marcia degli Eldar verso l’ovest, che per innumerevoli leghe si estendeva la Terra-di-mezzo, e aspro e senza strade era il cammino. Né gli Eldar volevano andar di fretta, perché erano pieni di meraviglia per tutto ciò che vedevano, e molte erano le terre e i fiumi presso i quali avrebbero voluto soggiornare.

(Il Silmarillion)

La meraviglia non è però soltanto il sentimento tipico di un’età dell’oro perduta, ma più in generale è, secondo Tolkien, l’unico ‘vero’ atteggiamento di fronte alla creazione (Eä), il cui unico scopo è quello di attrare la creatura al Creatore.  Per questo è anche l’atteggiamento dei Valar, le potenze angeliche a cui Dio, nella visione di Tolkien, ha affidato l’autorità del mondo. Così racconta Tolkien il primo incontro dei Valar con gli elfi:

Oromë fu meravigliato e restò in silenzio, e gli parve, nella calma della terra sotto le stelle, di udire, assai lontane, molte voci che cantavano. Fu così che finalmente i Valar trovarono, e fu per caso, coloro che così a lungo avevano atteso. E Oromë alla vista degli Elfi restò pieno di meraviglia, quasi fossero esseri inauditi, meravigliosi, imprevisti; perché sempre così accadrà con i Valar. Sebbene, per chi venga fuori del Mondo, tutte le cose possano, e con molto anticipo, essere pensate in musica o preannunciate in visione, chi entra in Eä con verità le accoglierà sempre, al loro apparire, come nuove e impreviste. (Il Silmarillion)

La meraviglia di fronte all’imprevisto del creato è dunque posizione originale, in senso sia storico che esistenziale, ma non è più per l’uomo, e in particolare per l’uomo (post)moderno, un atteggiamento naturale e spontaneo: deve essere recuperato, ridonato. Come spiega Tolkien stesso, in una conferenza che tenne all’università di St Andrews, esattamente 80 anni fa:

Abbiamo bisogno della ‘riscoperta’. (…) La ‘riscoperta’ (che implica il ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara (…) « vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle», vale a dire quali entità separate da noi stessi. Dobbiamo, in ogni caso, pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare – dalla possessività. Tra tutti i volti, quelli dei nostri familiares sono quelli con cui è più difficile dedicarsi a giochi di fantasia e i più difficili da osservare con fresca attenzione, percependone somiglianze e disuguaglianze, cioè che si tratta di volti, e tuttavia di volti unici. Questo tritume è, a ben guardare, lo scotto dell’« appropriazione»: le cose che sono trite o familiari in senso peggiorativo, sono le cose di cui ci siamo appropriati, legalmente o mentalmente. Affermiamo di conoscerle. Sono diventate quali quelle che una volta ci hanno attratto con il loro luccichio, il loro colore o la loro forma, e abbiamo messo le mani su di loro e poi le abbiamo chiuse a chiave nel nostro forziere, le abbiamo acquisite e, acquisendole, abbiamo cessato di guardarle.  (On Fairy Stories)

Questo ‘riscoperta della meraviglia’ è dunque una liberazione dalla schiavitù delle apparenze, e dalla ‘dalla tediosa opacità del banale’. Ma come si fa a recuperare la meraviglia di fronte all’alterità delle cose? Con l’umiltà, innanzitutto (dice Tolkien), ma anche grazie alla ‘fantasia creativa’, che è uno dei più importanti doni che Dio ha dato agli uomini, e uno strumento con cui Egli continua la sua opera creativa del mondo.

La fantasia creativa

Dovremmo guardare ancora il verde, ed essere nuovamente stupiti (ma non accecati) dall’azzurro, dal giallo, dal rosso; dovremmo incontrare il centauro e il drago, e poi fors’anche all’improvviso scorgere, al pari degli antichi pastori, pecore, cani, cavalli – e beninteso lupi. Questo ristoro, le fiabe ci aiutano ad averlo. E in questo senso, soltanto il gusto per esse può renderci o mantenerci fanciulli. (…) La fantasia creativa, dal momento che tenta soprattutto di fare qualcos’altro (qualcosa di nuovo), è capace di aprire il vostro forziere e di farne volar via tutte le cose racchiusevi, come uccelli da una gabbia. Le gemme si trasformano tutte in fiori e fiamme, e vi accorgerete allora che tutto ciò che avevate (o sapevate) era pericoloso e dotato di poteri, nient’affatto saldamente impastoiato, sì anzi libero e selvaggio; e tanto poco vostro quanto quelle cose non erano voi stessi. (ibidem)

La creazione artistica, e più in generale ogni impegno estetico del linguaggio e dell’immaginazione umana, è per Tolkien un dono e un compito (divino) per  recuperare un atteggiamento di meraviglia di fronte al ‘dato’ della creazione. Al cuore dell’opera di Tolkien c’è la scoperta che ogni uomo è  chiamato a collaborare, con i propri particolari desideri e pensieri, a un disegno più grande, a contribuire con il proprio ‘io’ alla grande polifonia della creazione, e così innestare la propria storia nel grande, unico ‘Tree of Tales’.